di Carla Capodimonti, Martina Bazzucchi,Valeria Piccioni*.
Il contenuto di questo articolo è sconsigliato ai soggetti fragili di cuore.
A noi docenti della Casa di Reclusione di Maiano, invece, questo luogo ogni giorno apre il cuore. A volte è facile, altre invece è dura, doversi chiudere le sbarre blu alle spalle e tornare alla propria vita quotidiana. Ma ci sono occasioni in cui quelle sbarre sembrano non esistere: il tempo si dilata, lo spazio si espande.
Suona la campanella e guardo l’orologio: via libera. Devo solo recuperare la macchina e catapultarmi al carcere: i ragazzi mi aspettano per il pranzo di Pasqua ed io non posso assolutamente mancare. Scendo le scale dell’edificio di corsa con la giacca infilata a metà, lo zaino penzolante sulla spalla, saluto gridando la collaboratrice scolastica interdetta, recupero la macchina, inforco le chiavi e metto in moto. Raggiungo l’edificio in tempi celeri e passo rapida ai controlli di routine all’ingresso.
La cucina è condivisione e cucinare è un atto di amore. E’ questo il filo conduttore del pranzo di Pasqua che stiamo per vivere oggi, venerdì 31 marzo, all’interno del carcere di Maiano, direzione sapori e profumi di Napoli. Ogni viaggio è fatto di attesa, arrivo e sorpresa.
Certi profumi e colori si diffondono tra i libri nella sala lettura, ci abbracciano, aprono quelle finestre sbarrate.
Potrei ora soffermarmi sullo spettacolo incredibile della biblioteca sgomberata, sulle mensole grondanti libri finalmente illuminate, su ciò che naturalmente coglierebbe l’estasi dell’occhio di una professoressa di lettere. Stavolta, però, altri dettagli mi rubano il cuore: c’è A.S. che legge un libricino in attesa su un banco di lato, le gambe penzoloni e sospese, la camicia bianca che gli illumina il volto olivastro. Ha il collo alla coreana, come piace a me. Solleva il viso e sorride. Sopraggiunge F.L. con il grembiule nero in vita; mi spiazza la sua eleganza composta, mi sento inadeguata accanto a lui. Sul tavolo i tovaglioli sono piegati alla maniera di un coniglio: R.G. mi indica il mio posto e poi piega l’orecchia dritta, “così è strano come lei, prof”. Li guardo esterrefatta: sono abituata a conoscere le loro simpatie, i loro sfottò, ma stavolta parliamo di Napoli e su un piano ben preciso: quello della tavola. E lì non vogliono scherzare. R.G. mi dice che servirà il vino umbro d’accompagnamento: porta rispetto per la mia regione, ma nei suoi lunghi soliloqui su Napoli non ha mai lasciato intendere che si potesse superare in qualcosa “casa soji”.
Ed eccoci, noi docenti insieme alla Dirigente Dott.ssa Roberta Galassi e alla prof.ssa Testaguzza nell’aula più bella dell’Istituto, addobbata e curata nei minimi dettagli, proprio come nei giorni di festa, in attesa di scoprire dove la “brigata di cucina” ci trasporti.
Siamo accolti dagli occhi sorridenti ed emozionati dei ragazzi che ci danno il loro benvenuto e ci fanno accomodare ai nostri posti. Tutto è perfetto. Si parte.
Si inizia con un cocktail analcoolico di benvenuto (Hugo), un banchetto composto da casatiello (“O’ Prof, è così perfetto che sembra finto!”), pizza rustica e pizza di scarola. Ci si accomoda a tavola, come vuole la tradizione, omaggiando l’Umbria con un vino rosso locale a tutto pasto che ricorda il sangue di Cristo, e si comincia: linguine al sugo di agnello, agnello al forno e carciofo arrostito (su un letto dai mille colori che ricorda un quadro astratto di Paul Klee).
Superata a fatica la prima tappa, viste le generose porzioni, ci ritroviamo ad assaggiare forse i piatti meno conosciuti ma sicuramente più autentici: in fondo, che Pasqua è senza agnello?
Gli occhi continuano a sorridere.
La conclusione è coi fiocchi: finalmente arriva la mitica pastiera con le sue sette strisce, e la torta caprese. Una delizia dopo l’altra, le pietanze vengono presentate dai ragazzi della cucina, professionali come pochi, mentre gli altri continuano ad accoglierci con storie della loro città: un luogo caro, difficile quanto ricco di estro e cultura. Ogni senso è appagato.
Le emozioni crescono e con loro anche la consapevolezza di essere arrivati alla fine del tour enogastronomico. Siamo al ritorno. Cosa rimane? La gratitudine nei confronti di chi ci ha accolto, accompagnato e fatto sognare, con rispetto, professionalità e serietà. In fondo, la cucina è un atto d’amore verso il prossimo.
Il pranzo è finito, i ragazzi passano allo sbarazzo. Mi guardo intorno sazia di cibo e di momenti fuori dall’ordinario. I dettagli dell’inizio mi tornano davanti agli occhi consumati dalla goliardia del pasto: la camicia un po’ stropicciata di A.S.; il grembiule slacciato di chi ha compiuto il proprio dovere, Il tovagliolo sfatto che giace accanto al piatto. Gli chef arrivano a salutarci. Siamo commosse e grate, tutto sembra un di più rispetto a quel che ci si aspettava. Uno di loro prende nuovamente la parola. Fa piccole pause, ha dei tempi da attore e sembra che stia per dire qualcosa difficile da formulare: “Grazie per aver partecipato al nostro pranzo. Qua il sole entra sempre a quadretti, ma voi ce lo portate intero”.
Sembra paradossale, ma non vi è sensazione di rinascita pasquale più forte di quella che in questo preciso momento noi – commensali privilegiati – stiamo avvertendo dietro alle grate di uno sperduto, immenso, claustrofobico, luminoso carcere di detenzione.
*NdR Pubblichiamo il resoconto di una giornata-evento memorabile tenuta all’interno della CdR di Maiano nella sezione dell’Ipseoasc. Il momento è andato ben oltre una semplice tavola pasquale, ma ha rappresentato l’essenza dell’istruzione come momento di rinascita e di cambiamento quotidiano.