Il Dolce (del) Carnevale di Spoleto

Si chiama Crescionda e a Spoleto è il dolce tipico del Carnevale. Le notizie storiche relative a questa caratteristica specialità della cucina spoletina le affidiamo a Giuseppe Guerrini, studioso di storia locale, che, in questo sito web, in occasione di “Spoleto tipica”, ha scritto anche  di strengozzi. In questa pagina, sempre di Giuseppe Guerrini,  anche le “Spartecchie” e il “Pane di Strettura” , che  con il Carnevale nulla hanno a che fare, ma con il cibo tipico certamente sì.

CRESCIONDA

Dolce tipico spoletino caratteristico del carnevale. Si prepara un impasto liquido, con latte, uova, cacao, biscotti grattugiati, pane grattugiato e un po’ di liquore; l’impasto si versa in teglia e si fa rapprendere in forno. A Cortaccione si racconta che in passato si faceva cuocere sul caminetto, con la brace sotto la teglia e un coperchio, preriscaldato sulla fiamma, e messo sopra. A Spina viene anche detta “crescionda dolce”, per distinguerla dalla “crescionda poretta”, meno dolce. L’etimologia sembra rimandare a “crescia unta”.
Crescionda agro-dolce.
Tra tutti i dolci tradizionali la crescionda è indubbiamente il dolce tipico del comprensorio spoletino, sconosciuto nel resto dell’Umbria, interessante non solo per le sue origini, ma anche per la sua evoluzione nel tempo. Questa ricetta è arrivata ai nostri giorni notevolmente modificata: ha perso infatti i contrasti di sapore acquistando un gusto ed un aspetto sempre più raffinato. La crescionda agro-dolce è un’antica ricetta le cui origini risalgono forse al medioevo, quando si prediligeva nelle pietanze il contrasto agro-dolce.
La ricetta originaria prevede i seguenti ingredienti: uova, pane grattato, brodo di gallina, formaggio pecorino, raschiatura della buccia di un limone, zucchero, cioccolato fondente grattugiato o cacao amaro.
Preparazione: alle uova, battute a zabaione con lo zucchero, vengono aggiunti: il pane grattato, il brodo di gallina e tutti gli altri ingredienti senza un ordine prestabilito fino ad ottenere un liquido denso. La quantità dei singoli ingredienti non era un tempo importante, perché ogni donna si regolava su ciò di cui disponeva e sui gusti dei familiari.
Crescionda di farina gialla.
Ingredienti: farina di mais g. 400, farina bianca g. 100, zucchero g. 100, cannella un cucchiaio, uvetta, pinoli, buccia grattugiata di un’arancia, burro fuso o olio 4 o 5 cucchiaini, mele g. 500, acqua.
Preparazione: le mele crude o appena cotte si sbucciano e si tagliano a fettine sottili. A parte si battono le uova con lo zucchero e si aggiungono quindi tutti gli altri ingredienti. Si lavora a lungo l’impasto affinché risulti omogeneo e morbido. Si versa l’impasto così ottenuto in una teglia unta e si cuoce al forno alla temperatura di 250° per circa un’ora. La crescionda appena sfornata può essere spolverata di zucchero.
Crescionda di mele.
Questa crescionda, molto gustosa, è oggi poco conosciuta e preparata raramente in quasi tutto il comprensorio spoletino.
Ricetta originaria. Ingredienti: mele di stagione, vino bianco, due uova intere, farina di mais, zucchero, cacao amaro, acqua, lievito per dolci (mezza bustina).
Preparazione: le mele, sbucciate e tagliate a pezzi, si mettono a cuocere in poca acqua zuccherata. A cottura ultimata si aggiunge il cacao amaro e si lascia raffreddare. A parte si battono a zabaione le uova e lo zucchero aggiungendovi la farina di mais, l’acqua ed il vino bianco fino ad ottenere un impasto morbido; alla fine si aggiungono le mele ed il lievito e si amalgama bene. Il tutto viene quindi posto in una teglia opportunamente unta. La crescionda viene cotta al forno per circa un’ora ed appena sfornata si può ricoprire di un velo di zucchero.
Crescionda poretta. Dolce preparato per il carnevale, a base di latte, acqua, uova, farina di granturco, mele, per preparare un impasto liquido, versato in teglia e cotto in forno.
Crescionda a tre strati. Questo tipo di crescionda si presenta più raffinata rispetto alle precedenti più antiche. Tagliata, risulta costituita da tre strati: uno di fondo formato dagli amaretti e dalla farina, uno centrale chiaro, come un budino alla vaniglia, formato dal latte e dalle uova ed uno superficiale marrone scuro formato quasi esclusivamente dalla cioccolata.
Ricetta originaria. Ingredienti: 4 uova, mezzo litro di latte, 4 cucchiai di zucchero (colmi), 4 amaretti grattugiati, cioccolato fondente o cacao (amaro o dolce), la buccia di un limone grattugiato, un cucchiaio di mistrà, un cucchiaio di farina di grano.
Preparazione. Si battono le uova a zabaione insieme allo zucchero, si aggiungono quindi il latte e tutti gli altri ingredienti senza un ordine prestabilito e si mescola il tutto con un cucchiaio di legno. Il preparato si versa quindi in una teglia imburrata e si mette al forno a fuoco moderato (180° circa). La crescionda è cotta quando da liquida diventa consistente, ma morbida. Gli amaretti possono essere sostituiti da biscotti di qualsiasi tipo e la cioccolata fondente dal cacao amaro e dolce. Quando si usa il cacao tutta la crescionda, anche nel suo interno, si presenta di color cioccolato.
Il prodotto fresco va conservato ad una temperatura di circa 6°/8° per uno o due giorni al massimo.

Giuseppe Guerrini

Anche per la crescionda, come per altri dolci tipici, ogni famiglia ha la sua ricetta, mai perfettamente uguale a quella delle altre. Comunque la crescionda che vedete in questa foto è fatta così:

Ingredienti: 8 uova, un litro di latte, un limone grattugiato, 4 cucchiai di farina, 8 cucchiai di zucchero, 200 g di cioccolato fondente (tagliato a scaglie), 200 g di amaretti, un pizzico di cannella, mezzo bicchierino di mistrà.

Gli albumi vanno montati a parte ed aggiunti alla fine, dopo aver preparato il composto con tutti gli altri ingredienti. Otterrete così la crescionda a tre strati, ovvero alla base il cioccolato fondente, al centro il latte  e le uova, nella parte superiore gli amaretti e gli albumi. Vi consigliamo di utilizzare una teglia antiaderente ben imburrata in quanto il cioccolato fondente si deposita sul fondo e tende ad attaccare.

SPARTECCHIE

Erano quarti di mele, fatti seccare al sole e poi asciugati al forno fino a raggiungere un tasso di umidità inferiore al 10% che consentiva la lunga conservazione senza farle ammuffire. Si preparavano d’estate, mettendole prima su vassoi di vimini fatti a mano, detti “naticchie” o “seccaiole”, fatte asciugare bene e riposte in sacchetti di tela. Si conservavano per l’inverno e si consumavano così o bollite, per ottenere un decotto considerato medicamentoso. Le mele usate per fare le spartecchie erano del tipo “sona o batocchia”, a “muso di bove o cetra”, “limoncello”, “renetta” o “annurca” o più generalmente “caduche”. La mela sona è un frutto medio, di forma allungata, ovoidale, con buccia spessa, cerosa, profumata di fiori, giallo- verde, con sfumature rosso brillante. A maturità i semi si staccano e allo scuotimento producono il tipico rumore; polpa bianca, croccante, aromatica, poco succosa, ma di buona qualità. La raccolta avviene ad ottobre. Si usava anche la mela annurca, definita la “regina delle mele”, soprattutto per la spiccata qualità organolettica dei suoi frutti. Luogo di origine sarebbe l’agro puteolano, come si desume dal “Naturalis Historia” di Plinio il Vecchio. Proprio per la provenienza da Pozzuoli, sede degli Inferi, Plinio il Vecchio la chiama “Mala Orcula”, in quanto prodotta intorno all’Orco (gli inferi).  Da qui i nomi anorcola e annorcola utilizzati successivamente, fino a giungere al 1876 quando il nome “Annurca” compare ufficialmente nel Manuale di Arboricoltura di G.A. Pasquale. L’Annurca, anche nel mutante “Rossa del Sud”, è famosa per la polpa croccante e compatta, gradevolmente acidula e succosa, aromatica e profumata, di buone qualità gustative. Il frutto si presenta del tipico colore rosso con epidermide liscia, cerosa, mediamente rugginosa nella cavità peduncolare. L’Annurca si presenta come un concentrato di vitamine B1, B2, PP, C, unitamente ad elementi minerali quali fosforo, ferro, manganese, zolfo e soprattutto potassio. Ad essa sono attribuite azioni positive a carico dell’apparato muscolare e nervino, effetti antireumatici, diuretici e dissetanti, una certa azione ipocolesterolemica e antimicrobica intestinale. Studi recenti hanno dimostrato, infatti, che la mela annurca è ricca di sostanze capaci di conferirle un elevato potere antiossidante, per cui essa potrebbe avere un ruolo decisivo nella prevenzione del cancro. La ricchezza in fibra poi, la rende particolarmente adatta a ripulire le arterie dal colesterolo e quindi a prevenire le malattie cardiovascolari.
Le spartecchie erano spesso tenute in tasca dalle donne, sotto la lunga veste. Esse ne facevano dono ai bambini insieme ad una noce. Spesso si cenava con le spartecchie nell’inverno, se non c’era niente da mangiare. (Testimonianza di Rosa, anni 82 di Ocenelli)
Lo “sbullitu de spartecchie” era un decotto di mele essiccate, preparato su una cuccuma di rame quando qualcuno era influenzato, e ritenuto avere poteri taumaturgici per tosse e raffreddore. Spesso si aggiungeva all’acqua di bollitura un goccio di vino. Si beveva accompagnato da due o tre spartecchie.
Le naticchie o seccaiole erano vassoi a forma di cuore, fatti a mano con i rami di salice o di vitalbia intrecciati, usati per seccare la frutta o la verdura. Si fa prima un arco di sostegno con un ramo di olmo, poi vi si intrecciano da parte a parte i tralci di vitalba o di salice.

 

IL PANE DI STRETTURA

Strettura è un piccolo paesino con meno di cento abitanti che si trova tra Spoleto e Terni.
Il pane di Strettura è legato al nome della famiglia Martinelli la cui storia è stata tramandata a voce. Esisteva già nel 1850 ed il poeta Belli in un sonetto parla di aver sostato nella bettola Martinelli. Fin da quei tempi si cucinava, si distribuivano bevande e si faceva il pane nella quantità richiesta dalle necessità. La crescita economica, dagli anni 70 in poi dello scorso secolo, vede una maggiore produzione. Riferisce la persona intervistata (Azeglia anni 63) che ha sempre cercato di migliorare il prodotto accettando dalla madre una serie di suggerimenti sia sulla manualità che sull’uso delle farine. Riferisce che i suoi genitori erano proprietari del mulino ad acqua dove veniva convogliato parte del grano prodotto in zona.
Da più di un secolo gli ingredienti sono assolutamente naturali e genuini, vengono utilizzati infatti farina di grano locale, acqua e lievito naturale (lasciato fermentare per più di una giornata).
Le peculiarità del pane di Strettura derivano dall’utilizzo di vecchie e buone varietà di cereali, di limpida e purissima acqua di sorgente, del forno a legna per la cottura nonché per la lavorazione completamente manuale. E’ un pane sciapo che si presenta come pagnotta oblunga generalmente liscia e omogenea del peso di circa 2 kg.
Ingredienti: 60 kg. di farina, 50 litri di acqua tiepida, 15 kg. di lievito madre. Riferisce l’intervistata (Gabriella a. 58) che le dosi degli ingredienti (in uso ancora oggi dalla madre Oliva di anni 90) erano in libbre.
Il lievito madre, conservato dalla panificazione precedente, viene sciolto in acqua tiepida leggermente salata. Quando è ben sciolto si aggiunge la farina tanta quanto basta per formare una pagnottella che si lascia lievitare, dopo averla segnata a croce, per tutta la notte. Il mattino successivo il lievito così rinfrescato viene sciolto di nuovo nell’acqua tiepida e si incorpora la quantità di farina, come sopra indicata, per la panificazione.
Si lavora a lungo l’impasto fino a che non diventa liscio ed omogeneo. Si lascia lievitare per diverse ore poi si stacca un pezzo lungo circa 1,5 mt. e del diametro di 12-15 cm. che pesato con le mani si accoppia con un altro pezzo formando così il filone. Il pane viene cotto in forni a mattoni scaldati con le fascine della nostra macchia mediterranea, che gli conferiscono un aroma unico ed ineguagliabile. Il pane è infornato quando la cupola e la spalla del forno sono completamente bianche, avendo raggiunto circa 300 gradi, con un tempo di cottura di circa 1 ora.
Poiché sia la preparazione del pane che la sua cottura richiedevano molto tempo e non si poteva preparare il pranzo, le donne facevano avanzare un po’ di pasta di pane che mettevano in un canovaccio sopra le ginocchia. In un caldaio appeso sul camino, la pasta presa a pizzichi si buttava nell’acqua bollente e salata, una volta a galla (segno che era cotta) si condiva con un sugo di pomodoro, lardo e pecorino
Gli attrezzi utilizzati per fare il pane erano: la madia, la “spianatora”, la tavola del pane, il telo del pane, l'”infornatora”. Con il braccio si prendeva il pane e si poneva sopra l’infornatora e così via. Oggi si usa una paletta con il manico che consente di rovesciare per due volte il filone. Il pane dopo cotto si pone su un tavolo di legno per farlo asciugare ed appena freddato può essere commercializzato.
Fino al 1985 circa il pane lo facevano solo le donne (l’intervistata ricorda la suocera, la Signora Maria e la madre); i primi operai uomini sono arrivati nel 1985.
Moltissime ricerche storiche e antropologiche hanno chiarito come a partire dall’XI secolo il pane conquisti un ruolo centrale nell’alimentazione delle classi subalterne in Europa. Se, ad esempio, nel VII secolo, Isidoro di Siviglia spiegava che il pane si chiama così “perché si aggiunge agli altri cibi”, dall’anno Mille è il resto dei cibi che si aggiunge al pane: nasce così il companatico. Nei contratti agrari, i coltivi sono chiamati “terre da pane”. Il prodotto dei campi diventa per antonomasia il raccolto del pane. Una quota del pane viene richiesta per l’affitto o per la decima delle terre. Soprattutto di pane, o di grano, o di farina, sono costituite le scorte delle famiglie contadine, registrate talora negli inventari di beni. Fra gli oggetti domestici ha un’importanza centrale la madia che conserva il pane, e sulla quale si impasta la farina. La comunità famigliare, che mangia e dorme sotto il medesimo tetto, è indicato come l’insieme di coloro che vivono dello stesso pane: “a uno pane”. Il pane diventa così un tratto saliente nell’identità culturale europea, un “marcatore culturale” che consente agli europei di differenziarsi dai mangiatori di miglio, di mais, di riso degli altri continenti. Una centralità durata almeno fino al secolo scorso, e avviata in corrispondenza della progressiva espansione dell’agricoltura e la conseguente crescita demografica. La vera fame nella cultura contadina è dunque rappresentata dall’assenza di pane. Il pane nell’esistenza dell’uomo assume un ruolo di fondamento della vita. Sulla tavola contadina “il rustico pane quotidiano” deve essere sempre presente. Perciò in mancanza di frumento, la tradizione rurale annovera, nel corso dei secoli e a seconda delle varianti locali, un’infinità di pani impastati con i cereali più diversi: parti d’orzo, di segale, di miglio, di farro, di avena, di granturco, o anche di castagne, di cicerchie, di lenticchie e di altri vegetali. L’uso del pane bianco, di frumento, non era certo diffuso nelle comunità rurali contadine e, accanto al pane lievitato, fiorivano le forme di panificazione azzima: dalle focacce di pasta non lievitata, cotte su piastre di ferro rovente, sui carboni ardenti o sotto la cenere. La fame era dunque la minaccia principale delle culture contadine dell’Ottocento e del Novecento. Il nostro caro “pane” sia esso cattolico pane quotidiano, sia esso comune pane giornaliero, è un elemento base della nostra alimentazione. Al di là di ogni definizione simbolica, filosofica o religiosa, il pane è sicuramente il primo alimento che l’uomo ha, per così dire, costruito con le proprie mani non trovandosi, come tale, in natura.
Caratteristiche del pane spoletino: croccante, morbido e sciapo. La tradizione culinaria vuole che sia questione di gusti dal momento che gli insaccati, i formaggi, i cibi spoletini in generale sono abbastanza saporiti. Per questo motivo, forse, i nostri antenati hanno pensato di temperare questi sapori con del pane privo di sale. Un’altra leggenda ci riferisce che gli spoletini si ribellaronio agli inizi del Settecento alle pressioni fiscali pontificie per cui decisero di comprare meno sale possibile su cui c’era una forte tassa.

Giuseppe Guerrini

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